Non è necessariamente come la racconta Machiavelli. Il mezzo deve essere all’altezza del fine, altrimenti i suoi connotati finiscono per distorcersi. Altrimenti quel fine diventa un’altra cosa. Inoltre, l’espressione “a qualsiasi costo” non tiene mai conto delle ripercussioni sugli altri. Giacomo Colnaghi, il magistrato protagonista del romanzo di Giorgio Fontana, Morte di un uomo felice (Sellerio, 2014), mostra con la sua esistenza l’aspetto più drammatico del terrorismo, quello che ti priva di un affetto e ti porta quasi a credere che il sangue sia l’unica via.
Morte di un uomo felice potrebbe essere letto come un dialogo a distanza tra un padre e suo figlio i cui destini sono stati pesantemente determinati dalla lotta armata. È così che quest’ultima nel tuo romanzo diventa centrale: nella misura in cui cambia la vita degli altri, quella delle vittime e dei loro famigliari.
Credo che il cuore del romanzo risieda proprio in questo: la storia di un padre e di un figlio che hanno scelto di vivere in nome di un ideale, ma che non sono mai riusciti a conoscersi. In particolare, per tutto il romanzo Colnaghi mostra un rapporto molto complesso con la figura del padre partigiano e comunista, ucciso quando aveva un anno. Da un lato non sa come eguagliarlo – come si può eguagliare un uomo del genere? – e dall’altro prova per lui un amore totalizzante ma astratto. Si sente insieme oppresso e ispirato da questa figura così ingombrante, che il resto della famiglia (conservatrice, cattolica, di certo non antifascista) ha invece sempre considerato come un “matto”, uno che si è fatto ammazzare per nulla.
Non solo hai mostrato il lato intimo e doloroso della vicenda, ma scegliendo un magistrato come protagonista hai potuto allargare la riflessione a temi “pubblici” sul ruolo della giustizia e i suoi limiti. Una questione che avevi già affrontato nel precedente romanzo Per legge superiore.
In Per legge superiore il protagonista Doni comprende lentamente che Colnaghi non è un eroe, ma un uomo raro perché svolge il suo mestiere con la massima coscienza. Ma se Doni rappresenta l’individuo che passa dalla coscienza tranquilla borghese al dubbio in tarda età, Colnaghi rappresenta l’individuo che non ha mai smesso di interrogarsi sul rapporto fra legge e giustizia: sulle difficoltà immani di esercitare il ruolo del magistrato senza diventare un burocrate delle norme. E nella scintilla che consegna, in questa eredità difficile e dolorosa, c’è il senso del “dittico”.
Colnaghi condanna la violenza oltre ogni ideologia in un modo che ripudia qualunque fascinazione per chi sceglie di sparare. Una posizione netta, inequivocabile, che non nasce tanto dal suo mestiere quanto dal tentativo di essere un uomo migliore. C’è del coraggio in questo.
Senz’altro il suo rifiuto dell’assassinio strategico, così come di ogni alone romantico che lo avvolgerebbe, ha un’origine intima prima che professionale o politica. Abbassare un uomo a un simbolo gli sembra il segno che per combattere i mostri si è diventati mostri a propria volta; questa non è lotta, è appunto terrorismo. Ma anche qui la storia del padre si fa sentire. Dialogando con il giovane brigatista che ha fatto arrestare, Colnaghi va ben oltre il suo ruolo giudiziario; vuole convertirlo. Vuole fargli capire l’entità dell’errore, dissipare la forma distorta e ottusa che hanno preso degli ideali in cui anche suo padre poteva riconoscersi – e in parte persino lui. A un certo punto se lo chiede: com’è possibile che persone con un retroterra simile (origini umili, mito della Resistenza, sete di giustizia sociale eccetera) possano diventare così diverse? Questa domanda lo tormenta. È un uomo con i suoi difetti e molte contraddizioni, ma di certo non gli manca la pietà.
A quali fonti hai attinto per ricostruire quegli anni?
Mi sono documentato il più possibile, anche per una questione di responsabilità. Troppe volte gli anni più delicati della nostra storia sono stati raccontati superficialmente con delle distorsioni; e dopotutto io non li ho vissuti. In particolare ho cercato di consultare una grande varietà di fonti, studiando il punto di vista di chi venne ucciso (quello che volevo raccontare, quello che mi interessa) ma anche quello di chi uccise: e quindi le storie dei magistrati assassinati in Toghe rosso sangue di Paride Leporace e il ricordo di Guido Galli in Aula 309 di Renzo Agasso così come la lunga intervista di Rossanda e Mosca a Mario Moretti e Una vita in prima linea di Segio; poi i lavori di Giorgio Galli, gli archivi del “Corriere” e di Lotta continua, L’orda d’oro di Moroni e Balestrini, le risorse visive di “La storia siamo noi”… Di tutto. Per quanto riguarda invece la storia del padre di Colnaghi è stata importantissima
la raccolta di memorie La Resistenza e i saronnesi di Nino Villa.
Pubblicato sul Mucchio 718, maggio 2014
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