Prendete tre giovani talenti nostrani che di nostrano non hanno neppure i soprannomi (Boy, Fred e Madnut), drogateli con massicce dosi di francobolli e infine staccate loro tre biglietti per l’India. Il risultato è Sultan Bathery. Che sarebbe anche un microcosmo sperduto nella desolazione del subcontinente asiatico; nonché, a detta dei ragazzi, “il peggior posto dove siamo mai stati“. La copertina cela i musicisti immersi fino al collo in limbi sulfurei e contrastati, abitati da creature infernali, stalattiti carsiche, lune anarchiche, stelle pluricromatiche e pianeti alla rinfusa. Non è dato sapere quante o quali sostanze abbiano assunto i viaggiatori prima di entrare in studio. Sta di fatto che dall’esperienza spaziale è scaturito un album caratterizzato da cospicui carichi di garage, potenti e inaspettati riverberi, derive psichedeliche e riferimenti più o meno espliciti a gruppi dalle simili attitudini: Black Rebel Motorcycle Club, evocati da Mirror, o i Black Lips in On The Run; volendo andare più indietro nel tempo i primissimi Pink Floyd, opacamente riflessi da Purple Moon, i Monks o i 13th Floor Elevator. Insomma, riferimenti di tutto rispetto espressi in una variante italiana. Si aggiunga a quanto scritto una confezione naif e sgargiante al cui interno è allestita una mostra di teschi da fare invidia a Damien Hirst.

Sultan Bathery
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